declinazioni postcoloniali della geografia italiana
Tania Rossetto
Any mapping of the postcolonial is a problematic and contradictory project
J.D. Sidaway, Postcolonial Geographies: An Exploratory Essay (2000)

In una delle più recenti introduzioni agli studi postcoloniali apparse nel panorama italiano (Bassi e Sirotti) viene segnalata la scarsa circolazione del termine ‘postcoloniale’ al di fuori della stretta sfera accademica, rimarcando ad esempio la sua assenza dai dizionari della lingua italiana. A fronte di questa situazione, appare degno di nota il fatto che nel recente Lessico del XXI Secolo dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani compaia la voce Geografia postcoloniale (Maggioli). La comparsa di una voce tanto specifica si spiega con il fatto che un’opera dedicata alle “grandi e complesse tematiche del terzo millennio”, tra cui appaiono centrali le “dinamiche della globalizzazione e del confronto di civiltà” (come si afferma nelle pagine web dedicate all’opera), non poteva non coinvolgere un rappresentante della disciplina geografica, il sapere più immediatamente ricollegabile ad una dimensione scalare di tipo globale. Il coinvolgimento di un giovane geografo culturale italiano per la redazione di una serie di voci di tenore geografico ha poi con ogni probabilità contribuito all’inserimento di questa assai specialistica declinazione disciplinare in un importante repertorio lessicale italiano.
L’istantanea associazione tra disciplina geografica e dimensione spaziale (quest’ultima considerata in senso fisico, economico, politico, sociale, culturale o psicologico) è peraltro alla base di un inevitabile, necessario nesso tra saperi, parole, metafore dello spazio e prospettiva postcoloniale. Per averne un evidente indizio, si consideri l’uso del lessico geografico (a partire dalla dialettica ‘spazio’/‘luogo’), di quello cartografico (la tanto usata ‘m’ word, da map/mapping), di quello limologico (confine, frontiera, margine, periferia) negli studi postcoloniali: un uso, e a volte persino un abuso, che però non ha mancato di produrre reciproci scambi. Basti qui citare il third space del critico letterario postcoloniale Homi Bhabha, confluito nella teorizzazione del terzospazio del geografo postmoderno Edward Soja (sui percorsi transdisciplinari del concetto si veda Ikas e Wagner), ovvero i costanti, significativi, espliciti riferimenti dell’autore-simbolo del postcoloniale, Edward Said, alla geografia. Anche in questo caso non senza reciproci apporti: se da un lato, infatti, Said ha contribuito a diffondere una rinnovata sensibilità nei confronti della dimensione spaziale e delle metafore della geografia (Kasbarian), egli ha altresì contribuito a stimolare i geografi stessi sul tema della propria posizionalità e autoriflessività, in quel processo di decentramento del pensiero occidentale che è cruciale tanto per la prospettiva postcoloniale quanto per le geografie postmoderne (Minca, Introduzione 64).
È proprio attraverso la via della geografia postmoderna che le espressioni del pensiero postcoloniale sono giunte ad esercitare il proprio influsso sugli studi geografici. Ciò vale soprattutto per la specifica situazione italiana, che ha conosciuto tempistiche e modalità di questo influsso solo in parte sovrapponibili al contesto ‘internazionale’, o per meglio dire angloamericano. Come ha sottolineato anche Miguel Mellino analizzando la ricezione degli studi postcoloniali in Italia, uno dei fattori in gioco nel loro attecchimento è infatti proprio il dibattito sul postmoderno e il post-strutturalismo.
Tratteggiare la più generale situazione della geografia umana italiana rispetto a quella anglofona aiuta a capire i modi di una ‘infiltrazione’ della teoria postcoloniale nella prassi didattica e di ricerca geografica del nostro paese. Una figura di riferimento per l’analisi di questo snodo è senza dubbio Claudio Minca, geografo triestino che, partendo da Venezia, incontra la geografia angloamericana nel corso degli anni Novanta, per poi lavorare a partire dagli anni Duemila non tanto e non solo ad un’importazione, bensì in direzione di un’apertura della geografia italiana al panorama internazionale. Venezia, dove Minca insegna una geografia postmoderna (e postcoloniale) presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere nei primi anni Duemila, diventa un luogo simbolico in questo tentativo (Minca, “Guest Editorial”). Minca, il più ‘rappresentativo’ tra i geografi italiani direttamente impegnati all’estero o impegnati, dall’Italia, nel dibattito internazionale di lingua inglese (dimostrazione ne è il fatto che gli siano stati assegnati dall’accademia anglosassone diversi report sul nostro paese, per cui si veda Minca “Italian Cultural Geography” e “Italian Language Geography”), pubblica nel 2001 un’antologia critica contenente saggi di riferimento della letteratura geografica sul postmoderno, la frontiera riconosciuta della ricerca geografico-umana angloamericana di inizio anni Novanta che sta alla base della nuova, grande attenzione dei cultural studies per la geografia.
In questo testo seminale, che spalancava con grande slancio e determinazione una finestra sulla geografia angloamericana ad una realtà disciplinare oggettivamente isolata, Minca ricomprende la prospettiva postcoloniale in uno dei tre principali approcci/percorsi della geografia postmoderna emersi nel quindicennio precedente: a. la questione della rappresentazione e delle sue politiche, al cuore della new cultural geography e del cultural turn in geografia, che con l'approccio postmoderno presentano significativi intrecci e sovrapposizioni; b. il dualismo identità/differenza “che la teoria femminista e le provocazioni postcoloniali hanno letteralmente massacrato, condividendo con il postmoderno molte prospettive e battaglie, ma mantenendosi separate dalle sue espressioni relativiste più estreme” (Minca, Introduzione 9); c. la trasformazione dello spazio urbano contemporaneo. Ovviamente i tre indirizzi non sono privi di intersezioni (sul rapporto tra geografia culturale e studi postcoloniali si veda Nash). Minca, dunque, dedica un passaggio fondamentale della sua Introduzione alla geografia postmoderna alle “geografie dell’Altro e dell’Altrove”, mettendo in grande risalto la figura di Edward Said. Minca ci avverte peraltro che, anche sulla base di alcune critiche mosse a Said, la geografia che si ispira agli studi postcoloniali (una “costituenda geografia postcoloniale”, una “nuova anima all’interno della disciplina”) ha allargato nel tempo i propri riferimenti, ricomprendendo Gayatri Spivak, bell hooks, Homi Bhabha, Robert Young.
La periodizzazione indicata da Minca (confermata in McEwan) colloca l’emergere di una geografia postcoloniale angloamericana all’altezza dei primi anni Novanta (anche se il primo volume compiutamente dedicato alle postcolonial geographies è McEwan e Blunt). Un intervento considerato periodizzante è quello di Felix Driver, che in una delle più prestigiose riviste geografiche inglesi, nel 1992, interviene denunciando la necessità di avviare una “critical history of geography” che tenga conto delle relazioni intercorse tra conoscenza geografica e potere coloniale nell’età degli Imperi. La decostruzione delle geografie immaginarie coloniali prospettata da Driver trova un punto altissimo di ispirazione in Orientalism, sia pur già ridiscusso per i dilemmi che porta con sé (in quanto critica a sua volta ‘essenzialista’ e poco incline a riconoscere l’agency dei soggetti individuali).
Il 1992 è però una data periodizzante anche per quelle che ho chiamato ‘declinazioni’ della geografia postcoloniale italiana. Esce in quella data, infatti, per uno degli editori più legati alla produzione geografica italiana, l’editore Pàtron di Bologna, una pubblicazione – quasi un opuscolo, di 40 pagine – di Lucio Gambi (1920-2006), il più importante geografo italiano del Novecento, dal titolo Geografia e imperialismo in Italia. Questa presa di posizione di un geografo italiano – preceduta da pochissimo altro, come testimonia la nota bibliografia acclusa da Gambi (si veda Carazzi) – che considera “la geografia, per mezzo delle sue istituzioni accademiche, come longa manus di copertura parascientifica della politica colonialista italiana” (come citato nel retro di copertina), costituiva la versione italiana di una relazione presentata al congresso internazionale Geography and Empire, tenutosi a Kingston (Canada) nel 1991, poi pubblicata qualche anno più tardi in inglese nel volume Geography and Empire (Godlewska e Smith; Gambi, “Geography and Imperialism”). Benché Gambi archiviasse questa stagione della geografia con la sconfitta politica e militare del fascismo, con un atteggiamento per la verità ben poco allineato all’idea di un persistente presente coloniale che caratterizza gli studi postcoloniali, il suo intervento costituisce un tassello cruciale nel processo di de-colonizzazione della disciplina, in un panorama come quello italiano notoriamente affetto da una ‘strana decolonizzazione’, accompagnata dalla tardiva emersione di una ricerca storica sull’espansione coloniale di tipo aggiornato (Labanca, Oltremare 428-448).
Gambi (così come Driver, invero, che tuttavia si basa su Said) non usa la parola ‘postcoloniale’, che però risulta implicitamente attivata nel suo intervento. Si apre in questo senso, nella ricognizione delle diverse declinazioni di una postura intellettuale postcoloniale nella geografia italiana, la divaricazione tra un ‘postcoloniale esplicito’ e un ‘postcoloniale implicito’. Questa duplicità caratterizza peraltro in generale anche la geografia culturale italiana (ovvero l’ambito geografico più propriamente ricollegabile agli studi postcoloniali in Italia), la quale ha in parte operato esplicitamente come tale (sia pur senza comunicare con la new cultural geography angloamericana e in generale con i cultural studies), ma soprattutto ha operato in modo implicito, dando vita a prodotti di ricerca geo-culturale senza necessariamente ‘marcarli’ con questa etichetta disciplinare (Minca, “Italian Cultural Geography”). Se la distinzione tra una geografia culturale italiana esplicita e implicita è comunque molto complessa, appare forse più semplice l’individuazione di un postcoloniale implicito/esplicito, dal momento che la teoria postcoloniale (e quindi la sua ricezione italiana) si caratterizza non tanto per il riferimento a vasti filoni tematici di studio, quanto per l’aggancio a una specifica serie di autori-ispiratori e all’uso di una gamma lessicale precisa e anch’essa di tipo ‘autoriale’.
Per seguire una genealogia del ‘postcoloniale esplicito’ occorre perciò fare riferimento essenzialmente all’opera di ‘traduzione’ di Minca, il quale dall’inizio degli anni Duemila ha lungamente collaborato con la geografa veneziana Rachele Borghi (‘importatrice’, con Antonella Rondinone, anche della geografia di genere anglofona, a riprova di una connessione tra studi postcoloniali e femministi estremamente attiva in geografia). Minca e Borghi si dedicheranno soprattutto al tema del rapporto tra la pratica turistica contemporanea e il retaggio coloniale, con riferimento in particolare al caso di studio del Marocco e alla città di Marrakech (si vedano ad esempio Minca “Il dubbio del (s)oggetto” e “Re-inventing”; Borghi; Minca e Borghi).
Riferimenti espliciti alla teoria postcoloniale e ai suoi esponenti (la triade Said, Bhabha, Spivak) sono altresì confluiti solo recentissimamente in manuali e strumenti pensati per gli insegnamenti universitari di geografia culturale, lentamente affermatisi nel nostro paese (si veda Bonazzi e Torre). Usi continui del lessico postcoloniale (ad esempio i termini ibridità o interstizio) si sono registrati, inoltre, almeno nell’ultimo decennio, nella geografia delle migrazioni, e in particolare in quella ispirata a metodi di ricerca di tipo qualitativo. Troppo spesso, infatti, da parte dei cultori degli studi postcoloniali italiani, si tende a trascurare quanto gli studi migratori di diversa matrice (geografica, antropologica, urbanistica, sociologica, politica) si siano nutriti, magari senza sistematicità e in maniera indiretta, degli autori ‘canonici’ del pensiero postcoloniale, contribuendo ad una sorta di socializzazione diffusa, leggera, ma ugualmente importante del lessico postcoloniale nell’accademia e nella sua vasta audience studentesca.
Molta della geografia delle migrazioni italiana degli ultimi vent’anni (si pensi ai Gruppi di lavoro sull’immigrazione straniera in Italia dell’Associazione dei Geografi Italiani), del resto, potrebbe essere collocata nel territorio di un ‘postcoloniale implicito’. Sarebbe infatti riduttivo pensare alla teoria postcoloniale come unica o principale ispiratrice di un’attenzione multidisciplinare nei confronti del riflesso del colonialismo sull’oggi, ovvero nei confronti di fenomeni, questioni, temi legati alle migrazioni internazionali, alle dinamiche transnazionali, alle pratiche diasporiche. Fenomeni, questioni, temi che, in effetti, nel contesto italiano, anche a livello di percezione diffusa, non vengono immediatamente associate al passato coloniale nazionale, per via della sua rapida rimozione memoriale da un lato e di un incontro tardivo con il fenomeno immigratorio dall’altro.
Altrettanto implicito, a mio avviso, si configura il postcoloniale di quella che può considerarsi la declinazione principale di una geografia postcoloniale italiana, come conferma anche la voce redatta da Marco Maggioli: ovvero la ricostruzione critica/decostruzione del coinvolgimento della disciplina istituzionalizzata, ma anche della geografia non professionale o para professionale, nel progetto/processo coloniale, a partire dal sopracitato intervento gambiano. Notevole in questo senso è stato, negli ultimi quindici anni e più, l’impegno dell’accademia geografica romana gravitante attorno alla Società Geografica Italiana di Roma, con i numerosi lavori di Claudio Cerreti (a partire da Cerreti, 1995) o quelli di Maria Mancini (a partire da Mancini, 1995), che per prima ha avviato il lavoro di presa in carico e riordino dell’archivio fotografico della Società Geografica Italiana. Come riconosce lo storico dell’espansione coloniale italiana Nicola Labanca, l’emergere negli anni Ottanta di un’attenzione metodologicamente aggiornata nei confronti della fotografia coloniale ha stimolato, anche in ambito storico, la maturazione di studi critici sul colonialismo italiano (Labanca, “Fotografia e colonialismo”; Rossetto). Il lavoro critico sulle istituzioni geografiche non è del resto prerogativa dei geografi: basti considerare il contributo del contemporaneista Giancarlo Monina sulle società geografiche e il consenso coloniale.
In ambito geografico-postcoloniale sembrano inoltre essere attive una linea più ‘immateriale’ e una più ‘materiale’ (ovviamente con importanti intersezioni), l’una incarnata dagli studi geo-culturali, l’altra abbracciata dalla geografia storica, dalla geografia africanista, dalla geografia dello sviluppo (sui rapporti anche conflittuali tra teoria postcoloniale e development geography si veda McEwan). Una tradizione importante del postcoloniale italiano, anch’essa più implicita che esplicita, è senza dubbio quella legata al lavoro sulla territorialità africana e la cooperazione allo sviluppo di studiosi quali Angelo Turco, Emanuela Casti Moreschi, Luigi Gaffuri, nonché di un’importante compagine della geografia padovana. Nel 1992, a ribadire il valore periodizzante di questa data, nasce la rivista Terra d’Africa, fondata e diretta dall’aquilano Angelo Turco con un comitato scientifico inizialmente composto dai padovani Dario Croce e Pierpaolo Faggi, il veneziano Gabriele Zanetto e il palermitano Vincenzo Guarrasi. La rivista, cessata nel 2010, ospiterà negli anni numerosi saggi sul colonialismo italiano, oltre a interventi di diversa provenienza disciplinare dedicati a temi africanisti. A cura di Turco e Casti (autrice quest’ultima di svariati saggi sulla cartografia coloniale, tra cui Casti) è poi il convegno internazionale e interdisciplinare Culture dell’Alterità. Il territorio africano e le sue rappresentazioni, tenutosi nel 1997 a Bergamo, dove i geografi si presentano in dialogo con esponenti degli studi letterari postcoloniali italiani come Itala Vivan. Nel 1996 Turco pubblica in Terra d’Africa un articolo su geografia e colonialismo che fa il punto sullo stato della ricerca in Italia, avanzando una sorta di agenda per un nuovo ‘fronte di ricerca’ negli studi geografici. Significativamente, usando in chiusura la parola postcoloniale (senza alcun riferimento proprio alla teoria postcoloniale), insiste sulla necessità di una concreta geografia del colonialismo, che si occupi di indagare le trasformazioni materiali e simboliche dello spazio africano agenti sull’oggi, e non solo di decostruire il discorso coloniale occidentale.
Un’ulteriore declinazione della geografia postcoloniale italiana, più o meno esplicita, è quella che s’impernia sull’oggetto geografico urbano: la città coloniale, la città mediterranea, la città cosmopolita, la città postcoloniale (quest’ultima riconosciuta anche internazionalmente come oggetto di studio che si staglia autonomamente contro il più generale campo delle geografie postcoloniali: King). I lavori del barese Raffaele Cattedra, ora a Cagliari (dedicati soprattutto a casi di studio nordafricani) sono assai significativi in questo senso, mentre vanno a profilarsi come luoghi speciali di una geografia postcoloniale urbana che insiste su di un orizzonte mediterraneo Napoli e Palermo, l’una con la sede de l’Orientale, l’altra notoriamente fucina dei cultural studies italiani (per i più recenti interventi si vedano, rispettivamente, Amato e Coppola; Guarrasi). Il modo in cui la teoria postcoloniale ‘striscia’ dentro alle ‘geografie dell’ascolto’ de La città cosmopolita di Guarrasi, ad esempio, è assai indicativo di come uno stile di pensiero postcoloniale sia altrettanto vividamente e autenticamente percepibile nelle sue apparizioni sfilacciate, a-sistematiche, ibride, applicative, contingenti, che nelle sue programmatiche immissioni nell’assai disarticolato dibattito teorico geografico italiano.
riferimenti
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pubblicato il 17 febbraio 2014