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contro il razzismo, oltre la 'razza'

Shaul Bassi

Bassi Razza 390x533La difesa della razza
(copertina del primo numero, 1938)

Gli studi postcoloniali sono in grado di dare un contributo importante alla necessaria battaglia politica e culturale contro ogni forma di razzismo. Il senso di questo breve intervento è che essi possano e debbano farlo limitando al massimo l'uso e la circolazione del sostantivo 'razza'.

L'immagine da cui desidero partire per sostenere questa tesi è la copertina del primo numero de La difesa della razza, il periodico che, intrattenendo un rapporto non lineare con il regime fascista, fu il laboratorio della sua ideologia razzista. Il titolo, già di per sé eloquente, riproduce un meccanismo psicologico tipico della mentalità imperialista: mentre si attacca con violenza un avversario, si presenta il proprio operato come 'difesa', gesto protettivo improrogabile di fronte a un nemico pericoloso e contagioso. È persino patetico che a rappresentare questo nemico siano due individui che sembrano presentare ben poca minaccia: una giovane donna africana e il profilo di un bassorilievo che rimanda a una non ben precisata antichità. Ma è proprio questa apparente innocuità che rende, agli occhi dell'ideologo razzista, il pericolo ancora più insidioso. La statua romana chiamata a rappresentare sineddochicamente un'italianità virile e combattente non si deve misurare con un pari grado, un novello Vercingetorige da sconfiggere in campo aperto e a cui rendere l'onore delle armi. Il nemico razziale è subdolo, nascosto, indecifrabile. Si cela dietro la sensualità apparentemente innocente di popolazioni africane più vicine allo stato di natura; si maschera dietro la apparente normalità borghese di ebrei che appaiono italiani come gli altri ma che in realtà portano dentro di sé una irriducibile differenza ancestrale che li spinge a complottare contro la patria servendo gli interessi di una invisibile cospirazione globale. Da qui la spietata necessità del gladio, il taglio netto, l'escissione della parte irrimediabilmente malata per sanare il corpo della nazione.

L'immagine è abbastanza nota, e vorrei qui darne una lettura supplementare a quella storica che la colloca a immagine simbolo di quelle 'Leggi per la Difesa della Razza' che, emesse nel 1938, fanno del nostro paese uno dei pochi paesi ad aver mai avuto un vero e proprio apparato legislativo volto a sancire il principio dell'esistenza e ineguaglianza delle 'razze umane'. È un dato significativo che questo poco invidiabile primato non venga quasi mai ricordato in presenza di odierni episodi e dispositivi – anche giuridici – di razzismo. Vorrei infatti suggerire che nel frangente storico attuale un'altra, invisibile lama separa le due figure dei due nemici razziali del fascismo, tenendo tendenzialmente separate le analisi dell'antisemitismo da quelle del (post)colonialismo. In altre parole, l'impressione è che la memoria dell'Olocausto, che si è tardivamente sviluppata e istituzionalizzata in un paese che per decenni dopo la guerra aveva preferito non fare i conti con la propria politica e cultura antisemita (proiettandola convenientemente sugli ex-alleati tedeschi), oggi tenda a cristallizzarsi in forme più o meno rituali che vezzeggiano gli ebrei come vittime del passato ma li sottraggono a uno scomodo sguardo comparativo nel presente. Può allora capitare che il politico di turno si stringa in un commosso abbraccio ai fratelli ebrei la mattina e poi profferisca nel pomeriggio dichiarazioni infuocate contro gli zingari o gli immigrati di turno. Si tratta di una dinamica cui spesso partecipano le stesse istituzioni ebraiche italiane, che temono che uno sguardo attualizzante e relativizzante che comprenda altre forme attuali di razzismo (al di là di alcune innocue formule di circostanza) possa sfociare in argomenti revisionistici o diluire la specificità del caso ebraico italiano in un calderone pieno di buone intenzioni ma capace di cancellare la singolarità di un'esperienza la cui memoria e le cui conseguenze sono ancora impresse negli ultimi testimoni e nei loro figli e nipoti. Il Giorno della Memoria è un'iniziativa ufficiale molto controversa, capace di generare esperienze pedagogiche e civili di grande respiro, ma anche un'occasione per un veloce lavacro annuale delle coscienze che dopo il classico "non deve accadere mai più" faccia tornare tutti felici e contenti alla routine quotidiana. Ma anche sul piano più intellettuale e scientifico, pochi sono gli studi sull'antisemitismo, fascista e non solo, capaci di seguire la precoce lezione di Hannah Arendt che invitava a studiarlo insieme all'imperialismo.

Il rovescio della medaglia è che molti studi di ispirazione postcoloniale, in partenza molto meno visibili e mainstream, hanno cominciato a scandagliare la storia ed eredità coloniale dell'Italia, ma nell'affrontare le politiche razziste dei vari regimi italiani, liberali prima e fascisti poi, tralasciano il nesso tra le leggi razziali contro i soggetti africani e quelle contro gli ebrei. Si potrebbe parlare, con le dovute e meritevoli eccezioni, di un non dialogo tra ambiti, comunità scientifiche, discorsi critici, di un reciproco ignorarsi che, va detto senza infingimenti, ha precisi sottotesti politici.

La memoria della Shoah, si diceva, è stata assimilata nel canone culturale italiano: da più parti si tende a restituire tardivamente agli ebrei una patente di italiani come gli altri, o a dichiararli parte di una comune eredità giudaico-cristiana. Queste retoriche, spesso al di là delle buone intenzioni che le animano, hanno, per drammatica ironia, un inconscio ancora gravido di latenti pregiudizi razzisti. L'implicazione è che gli ebrei siano vittime più 'presentabili' degli immigrati clandestini che annegano nei nostri mari. Che le leggi razziali fossero mostruose perché indirizzate a persone 'come noi', quasi a sottendere che invece esistano delle differenze incolmabili con altri tipi umani. E l'idea della comune radice religiosa e culturale, insolente nel suo cancellare quasi due millenni di storia europea in cui giudaico significava l'opposto strutturale di cristiano, viene usata spesso e volentieri in esplicita o implicita chiave anti-islamica. Certe forme di condanna dell'antisemitismo contengono in sé pericolosi stereotipi: gli ebrei sono come noi, dopo tutto, anzi sono fratelli; ergo sbagliato perseguitarli. Il corollario è che chi è più evidentemente diverso da noi e non ha legami religiosi o culturali forse merita di essere tenuto in disparte o addirittura perseguitato. Ma sotto questo discorso ufficiale continua a serpeggiare, anzi a montare, un antisemitismo che recupera tutto il suo secolare archivio, e che soprattutto in momenti di crisi economica torna a evocare i fantasmi del complotto mondiale ebraico, non a caso argomento che tenta sempre le forze politiche più populiste.

In questa rappresentazione giocoforza molto schematica, se ci spostiamo sul versante postcoloniale scopriamo una situazione in qualche modo speculare. Lo studio del razzismo è concentrato sugli 'ultimi', sui vecchi e nuovi dannati della terra, su coloro che sono cinicamente sfruttati nella divisione etnica del lavoro che ha in parte soppiantato le dinamiche di classe, sui migranti che vivono – e spesso muoiono – in transito tra diverse identità e passaporti. Il necessario collegamento che viene finalmente stabilito tra il nostro passato coloniale e il nostro presente di confine sud della 'Fortezza Europa' sembra lasciare poco spazio ai nessi culturali e concettuali tra il razzismo anti-africano e quello antisemita, relegati al massimo nelle note a piè di pagina. Nel dare la voce agli emarginati non si ravvede l'utilità di citare una minoranza oramai integrata, ampiamente rappresentata nella cultura ufficiale e – elemento decisivo – culturalmente legata a un paese come Israele che rappresenta gli oppressori e non gli oppressi, i colonizzatori e non i colonizzati. La questione mediorientale pesa come un macigno su questa non-dialettica, proiettando inevitabilmente ma ineluttabilmente i rapporti di potere dell'oggi sulla storia culturale e politica del passato. Mentre validi studiosi come Aamir Mufti, Bryan Cheyette, Michael Rothberg hanno recentemente dimostrato i legami genealogici imprescindibili tra questione ebraica europea e questione postcoloniale (sulla base di brevi ma folgoranti intuizioni dei padri fondatori Frantz Fanon e Edward Said), proprio l'Italia, in cui le due questioni si sono saldate in forma esplicita e virulenta, stenta a incrociare gli sguardi dei due campi disciplinari.

Il discorso ci potrebbe portare in diverse direzioni, ma qui vorrei svilupparlo solo in uno specifico ambito, quello del portato semantico della parola 'razza'. Nello scenario che ho tratteggiato mi pare che uno studente italiano possa facilmente trovarsi di fronte ad almeno due, se non tre, usi diversi del termine. Uno è quello legato alle Leggi Razziali, in cui la 'razza' viene presentata come una categoria politica che fa un abuso di un termine pseudoscientifico a fini discriminatori e più o meno relativo agli ebrei; l'altro è quello più apparentemente contemporaneo in cui 'razza' ha un uso più vario, quasi sociologico, di importazione nordamericana. È indicativo che una banale ricerca bibliografica mirata a libri pubblicati in Italia che portino 'razza' nel titolo restituiscano o studi sul razzismo fascista o titoli relativi agli Stati Uniti. Ma cosa succede quando si traduce un titolo come Race Matters di Cornel West come La razza conta? Si stabilisce, a mio parere, una falsa equivalenza tra l'inglese 'race' e l'italiano 'razza'. Non si tratta solo di osservare che da noi 'razza' si usa per gli animali da compagnia (con una scelta etimologicamente fondata, visto che al contrario di quel che si legge di solito sulla derivazione dal latino generatio 'generazione' o ratio 'natura, qualità' è probabile che il termine discenda dal francese antico haraz o haras, allevamento di cavalli). Si tratta di prendere atto che race è un termine che riassume in sé una storia e una classificazione antropologico-politica tipicamente statunitense, imperniata sulla linea del colore, che dentro i confini dell'Europa non è stata affatto il discrimine razziale prevalente. Se poi si aggiunge che in un paese di scarsa alfabetizzazione scientifica come l'Italia, gli studenti potrebbero imbattersi anche in quei coraggiosi genetisti, biologi o storici della scienza che cercano in tutti i modi di ricordarci che dal punto di vista oggettivo le razze non esistono, si corre davvero il rischio di creare una confusione categoriale e semantica di vaste proporzioni.

È a questo punto che faccio mio con convinzione un audace e poco ascoltato appello di Paul Gilroy, l'unica risposta etica che secondo il grande pensatore postcoloniale si può opporre ai torti che le diverse razziologie continuano a produrre:

Rinunciare alla 'razza' a scopi analitici non significa giudicare tutti i modi in cui ci si appella ad essa nel mondo profano delle culture politiche come formalmente equivalenti. Con un atteggiamento meno difensivo, penso che la nostra pericolosa condizione, nel mezzo di un cambiamento politico e tecnologico epocale che in qualche modo rafforza l'assolutismo e il primordialismo etnico, esiga una risposta radicale e d'effetto. Una risposta diversa dal pio rituale in cui concordiamo tutti che la 'razza' è inventata ma siamo poi obbligati ad accondiscendere al suo radicamento nel mondo e accettare che la nostra domanda di giustizia ci obblighi malgrado tutto a entrare candidamente negli spazi politici che essa contribuisce a demarcare. (Gilroy 52)

Se proprio dal centro geopolitico del dibattito sulla race Gilroy ha il coraggio di invitarci a immaginare un futuro in cui essa non sia un'idea regolativa, nella nostra periferia siamo ancora in tempo a cogliere questa sfida prima che, ad esempio, le nuove generazioni di italiani (ri)comincino a identificarsi in una qualsivoglia 'razza' che non sia quella umana.

I concetti di razza e razzismo vanno senz'altro analizzati e studiati nella loro dimensione storica, non solo indagandone l'inizio ma anche immaginandone la fine.

Siamo di fronte a un sofisma? Il razzismo dilaga e non si deve parlare di 'razza'? Il problema è epistemologico, critico, linguistico, traduttologico. In questa coraggiosa presa di posizione, Gilroy riconosce che sebbene non tutti i modi di usare 'razza' siano equivalenti, e alcuni siano genuinamente antirazzisti, fintantoché penseremo attraverso questa categoria, accetteremo la sua filosofia di base. Gli studi postcoloniali hanno il merito, accanto agli studi americani, di aver scoperchiato l'evidente razzismo conscio o inconscio del nostro canone culturale, ma a mio modesto parere la semplice traduzione del termine inglese race in quello italiano di 'razza' è carico di rischi ed effetti collaterali. Mentre 'razzismo', 'razziale', 'razziologia' sono tutti concetti che portano in sé un'idea di processualità e artificialità, quell'intervento manipolatorio dell'uomo che già avevamo riscontrato nella etimologia della parola, usare 'razza' anche a fini antirazzisti (quante volte abbiamo sentito dire: "io rispetto tutte le razze") contribuisce ineluttabilmente a essenzializzare e ontologizzare la categoria. Non bisogna rispettare tutte le razze, bisogna ricominciare con forza dal principio che le razze non esistono se non nello sguardo di chi ha interesse a promuoverne la diseguaglianza. Come parlare allora della diversità umana che la nuova società plurale ci mette finalmente di fronte anche nella nostra vita quotidiana? Ripartirei senza dubbio dal sottovalutato e sottoutilizzato termine di etnicità. Bill Ashcroft, Hellen Tiffin e Gareth Griffiths hanno notato che "è significativo che il dibattito accademico in questi decenni abbia posto al centro della discussione race piuttosto che ethnicity" (186). Che vuol dire significativo? Anche qui mi pare alberghi un certo imbarazzo epistemologico, anche di fronte a una corretta identificazione di un problema. 'Etnicità' sicuramente non va presa come equivalente eufemistico di 'razza', né come suo sottoinsieme (come invece sembra essere l'atteggiamento equivalente negli Stati Uniti). Secondo l'efficace definizione di Ugo Fabietti, "l'etnicità è una costruzione simbolica mediante la quale un gruppo produce una definizione del sé e/o dell'altro collettivi" (21). Quando si chiama in causa la nostra identità collettiva o quella altrui (due fenomeni spesso interdipendenti), anche quando lo si fa nel modo più estremo e violento come per l'appunto nel caso della razzializzazione del sé e dell'altro, non ci si ferma mai al genotipo o al fenotipo. A essere evocate sono anche questioni di religione, lingua, tradizione, modelli antropologici e sociali. Quando i fascisti definivano la 'razza italiana' e la ponevano in opposizione a quella nera e a quella ebraica, essi proponevano di fatto delle complesse etnografie, colme di contraddizioni e tautologie, ma attente ad abbracciare ogni forma del vivere umano. La prospettiva postcoloniale che ci impone di capire le complessità del presente e di riallacciarle ai saperi del passato deve quindi limitare la 'razza' ai suoi trascorsi storici e ripartire da uno strumento concettuale più elastico e meno ambiguo. L'Italia con la sua identità fragile e frammentata ha costruito se stessa su tre ideologie rivali (cristianesimo, comunismo, liberalismo) ma accomunate da un afflato universalistico poco portato a comprendere la differenza se non come un ostacolo da rimuovere. È solo puntando preliminarmente questo sguardo postcoloniale su noi stessi – a cominciare da quella difficile ma indispensabile analisi della matrice antropologica cattolica della società italiana – che possiamo ambire a comprendere e includere gli altri alla ricerca di nuovi modelli ed equilibri di convivenza.

riferimenti

Ashcroft, Bill, Hellen Tiffin e Gareth Griffiths. Post-Colonial Studies. The Key Concepts. London-New York: Routledge, 2007.

Fabietti, Ugo. L'identità etnica. Roma: Carocci, 1998.

Gilroy, Paul. Between Camps. Race, Identity and Nationalism at the End of the Colour Line. Harmondsworth: Allen Lane, The Penguin Press, 2000.

Pisanty, Valentina. La difesa della razza. Milano: Bompiani, 2006.

 

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pubblicato il 14 agosto 2014